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Cronaca

Sequestro choc a Sant’Antonio Abate: macello scaricava veleni nel Sarno, un altro colpo al nostro fiume martoriato.

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Sequestro choc a Sant’Antonio Abate: macello scaricava veleni nel Sarno, un altro colpo al nostro fiume martoriato.

#SequestroASantAntonio: L’ennesimo attacco al fiume Sarno, tra indifferenza e promesse non mantenute

Nel cuore di Sant’Antonio Abate, un’altra pagina buia si aggiunge alla cronaca ambientale della Campania: un impianto di macellazione è stato bloccato per aver riversato direttamente nel fiume Sarno reflui industriali carichi di sostanze nocive, un gesto che, come locale, mi fa riflettere su quanto il nostro territorio sia ancora ostaggio di chi antepone i profitti alla salute del nostro ecosistema. Qui, dove il Sarno scorre come una ferita aperta, questo episodio non è solo un reato, ma un affronto quotidiano alla comunità che vive con l’ombra di un fiume tra i più inquinati d’Europa.

I Carabinieri del Gruppo per la Tutela dell’Ambiente di Napoli hanno messo i sigilli allo stabilimento della “IN.C.E.B. SUD s.r.l.”, scoprendo un’operazione illegale che aggirava sistematicamente le norme ambientali. Questa incursione fa parte di un’indagine più vasta, “Rinascita Sarno”, guidata dalla Procura di Torre Annunziata, che da anni cerca di stanare le cause di un inquinamento endemico, ma che, come ben sa chi abita qui, spesso si scontra con resistenze radicate e una rete di complicità tacite.

Come cronista del posto, non posso fare a meno di sottolineare come questo sistema di evasione, un vero e proprio bypass per schivare i costi della depurazione, rifletta una mentalità diffusa: anziché investire in trattamenti adeguati, l’azienda devitava i reflui – contaminati da sangue, urine e scarti organici derivati dalla macellazione e dal lavaggio dei piazzali – dritti nella fognatura pubblica, finendo per aggravare lo stato del Sarno. È una scorciatoia che, nei fatti, costa cara alla nostra terra, dove i fiumi non sono solo corsi d’acqua, ma parte dell’identità di interi comuni.

Le analisi dei laboratori hanno rivelato presenze allarmanti: livelli di azoto ammoniacale, ammoniaca, grassi animali e vegetali, e residui organici ben oltre i limiti legali, con un potenziale tossico che minaccia l’ecosistema fluviale. E non è tutto: l’impianto operava senza le necessarie autorizzazioni edilizie e ambientali, gestendo dieci dipendenti e producendo fino a 50 tonnellate di carcasse al giorno, in una zona dove il controllo urbanistico è spesso un miraggio. Da residente, mi chiedo come sia possibile che simili attività prosperino sotto gli occhi di tutti, alimentando un circolo vizioso di danni irreversibili.

Questa operazione si inserisce in un quadro investigativo più ampio sul bacino del Sarno, che non si limita ai rifiuti industriali, ma include anche gli scarichi fecali di alcuni comuni ancora privi di infrastrutture adeguate. I dati parlano chiaro: oltre 325 controlli da parte della Procura, con 191 esiti negativi, 61 sequestri, 204 denunce e 2 arresti, tra cui accuse di inquinamento ambientale già confermate in appello. È un bilancio che, mentre da un lato mostra impegno, dall’altro sottolinea la gravità di un problema radicato, dove decenni di negligenza hanno trasformato il Sarno in un simbolo di abbandono.

Come chi vive e respira quest’aria, non posso che commentare con un misto di speranza e scetticismo: il sequestro è un passo necessario, ma serve molto di più per una vera rinascita. Il giudice ha giustamente motivato l’intervento per prevenire ulteriori danni, eppure, qui a Sant’Antonio Abate e nei dintorni, la vera sfida è cambiare una cultura che continua a sacrificare l’ambiente sull’altare dell’economia. Solo così potremo sperare in un futuro dove il Sarno non sia più un’emergenza, ma un orgoglio locale.

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