Cronaca
Processo Moccia: 10 imputati chiedono trasferimento da Napoli, lamentando clima ostile e rischi di condizionamenti – Un segnale delle tensioni giudiziarie locali?
#ClanMoccia in Crisi: I Boss Chiedono di Fuggire dalla Giustizia Napoletana per Paura di un Clima “Avvelenato”
In una Napoli dove la lotta alla camorra è un’eterna battaglia tra ombre e luci, dieci imputati del maxi-processo al clan Moccia hanno presentato una richiesta clamorosa: trasferire il dibattimento lontano dalla città, accusando un ambiente giudiziario troppo contaminato per garantire un processo equo. Come cronista locale che vive queste dinamiche quotidiane, non posso fare a meno di riflettere su quanto questo episodio esponi le crepe di un sistema che, pur lottando contro la criminalità, rischia di alimentare sospetti e divisioni. È un colpo al cuore della nostra amministrazione della giustizia, dove la pressione mediatica e gli avvicendamenti infiniti trasformano ogni udienza in una partita a scacchi estenuante.
La difesa, guidata da avvocati che conoscono bene le strade tortuose di Napoli, ha depositato un’istanza di 33 pagine firmata da nomi pesanti come Antonio, Luigi e Angelo Moccia. In essa si denuncia un clima “avvelenato” al Centro direzionale, che potrebbe compromettere l’imparzialità del giudizio. I firmatari parlano apertamente di una situazione dove si è “realizzata una spaccatura manichea tra il ‘bene’, rappresentato dal procuratore Nicola Gratteri, e il ‘male’, incarnato dagli avvocati della difesa che mirano alla prescrizione”. Questa polarizzazione, secondo loro, è destinata a “influenzare il giudizio” dei magistrati, trasformando il tribunale in un’arena dove il bene e il male non sono chiari come sembrano.
Da un osservatore del territorio come me, che ha visto crescere queste tensioni nelle aule e nelle piazze, è inevitabile commentare come tale richiesta rifletta i problemi cronici della nostra giustizia: la camorra non è solo un crimine, è un’ombra che si insinua nelle istituzioni, amplificando ogni screzio. La scintilla che ha acceso questo “scandalo mediatico”, come lo definiscono i difensori, è stata la scarcerazione per decorrenza termini di 15 imputati su 43, avvenuta ad agosto. Da quel momento, il caso è esploso sui media e sui social, con interventi di personaggi come lo scrittore Roberto Saviano e il deputato Francesco Emilio Borrelli, culminando nella presenza in aula del procuratore Gratteri all’udienza del 7 ottobre. Lì, Gratteri ha espresso pieno sostegno alle pm Ivana Fulco e Ida Teresi, ribadendo l’urgenza di arrivare a una sentenza di primo grado in questo processo complesso, che indaga sulle ramificazioni camorristiche ad Afragola.
Ma ciò che davvero alimenta il “legittimo sospetto” della difesa è un provvedimento interno del Tribunale: il presidente Giampiero Scoppa ha invitato i giudici della settima sezione penale a chiudere il processo “ineludibilmente” entro settembre, per evitare un altro cambio di collegio dopo il trasferimento del giudice Michele Ciambellini. Si tratta del quattordicesimo avvicendamento dall’inizio del dibattimento, una girandola che, come ben sanno gli addetti ai lavori qui a Napoli, erode la continuità e alimenta frustrazione. Per rispettare questa scadenza, è stato imposto un calendario forsennato: quattro udienze alla settimana per due mesi. La difesa lo bolla come “insostenibile” e “pregiudizievole”, e io, da cronista che ha seguito processi simili, non posso che concordare sul realismo di questa critica. In una città dove la burocrazia giudiziaria è già sovraccarica, forzare i tempi rischia di sacrificare la qualità della giustizia sull’altare dell’efficienza.
Ora, la palla passa alla Corte di Cassazione, che dovrà decidere se concedere il trasferimento. Fino a quel momento, il processo resta in stallo, con la sentenza appesa a un filo. Intanto, le udienze proseguono: ieri la Procura ha depositato il verbale del collaboratore di giustizia Salvatore Scafuto e richiesto il suo esame in aula, oltre a voler riconvocare il testimone chiave, l’ufficiale dei carabinieri Andrea Manti. Solo una volta che la Suprema Corte scioglierà questo nodo, il collegio potrà concentrarsi sul cuore del caso. In un territorio come il nostro, segnato da decenni di lotte contro la camorra, questa richiesta non è solo una mossa legale, ma un campanello d’allarme per tutti noi: la giustizia deve essere imparziale, o rischia di diventare parte del problema.
