Cronaca
Nino D’Angelo costretto all’esilio da Napoli: la camorra gli sparò alle finestre, una storia che ferisce la nostra città.
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Come cronista locale che ha visto Napoli trasformarsi tra ombre e luci, non posso fare a meno di riflettere su come storie come quella di Nino D’Angelo incarnino il dramma di tanti che hanno dovuto voltare le spalle alla loro terra per colpa di quella piaga perenne che è la camorra. L’artista, con il suo carisma inossidabile, ha riaperto vecchie ferite in un’intervista a Domenica In, seduto accanto al figlio Toni, regista del documentario “18 giorni” in arrivo al cinema. È una confessione che va oltre il personale, toccando le contraddizioni di una città che ama ma che, a volte, sa essere crudele.
Dietro la maschera del sorriso che ha incantato generazioni di partenopei, Nino porta il segno di un esodo obbligato, segnato da minacce e violenza. “Lasciare Napoli è stato terribile”, ha ammesso con voce tremante di fronte a Mara Venier, svelando un capitolo buio che molti qui a Napoli conoscevamo solo per sentito dire. Quegli anni bui, pieni di estorsioni e intimidazioni, erano il pane quotidiano per chi osava dire di no al racket, e la storia di D’Angelo ne è un esempio lampante. “Per anni la gente ha pensato che fossi andato via per scelta, ma non sapevano la verità. La camorra ci sparò alle finestre di casa. Avevamo paura, abbiamo denunciato e siamo dovuti scappare.”
Quella decisione di non cedere al ricatto – un atto di coraggio che tanti nel nostro territorio ammirano ma che pochi possono permettersi – costò caro alla famiglia D’Angelo. Sua moglie, terrorizzata per la sicurezza dei figli, premeva per andarsene, e lui, pur con il cuore a pezzi, non poté fare altrimenti. “Volevano i soldi, ma io non volevo piegarmi. Solo che mia moglie era terrorizzata e voleva andare via con i bambini. Non potevo lasciarli soli. È stato devastante: ho lasciato mia madre, mio padre, le mie radici.” Come qualcuno che ha percorso queste strade, so bene quanto sia dura strappare via le proprie radici da un posto come Napoli, dove ogni vicolo e ogni scorcio è legato a ricordi indelebili. È un esilio che non è solo fisico, ma un trauma sociale, un promemoria delle cicatrici che la camorra lascia sulla nostra comunità, anche quando la città prova a voltare pagina.
Roma, per D’Angelo, è stata una specie di rifugio provvidenziale, una città accogliente ma incapace di colmare il vuoto lasciato dalla sua Napoli. “Roma è una città bellissima, la zia che mi ha cresciuto. Ma Napoli è la mamma, quella che ti manca sempre, anche quando ti ha fatto soffrire.” Questa metafora, così profondamente locale, risuona forte tra noi che viviamo qui: Roma può offrire opportunità, ma Napoli è l’anima, il battito che non si spegne. Oggi, però, il tono di Nino è più conciliatorio, specchio di una Napoli che sta provando a riscattarsi. “Napoli oggi è viva, piena di turisti, di energia. Ci torno sempre più spesso, con affetto. È una città che non si dimentica, che resta dentro.” Da cronista sul campo, devo dire che ha ragione: i turisti affollano le piazze, l’energia giovanile ribolle, ma sotto la superficie permangono le questioni irrisolte, come la lotta alla criminalità organizzata, che rende storie come la sua un monito per tutti.
Il documentario “18 giorni” non è solo un viaggio personale, ma un riflesso delle nostre battaglie collettive: dalla paura alla rinascita, dall’esilio al ritorno. Le parole di D’Angelo riecheggiano nelle strade di Napoli, ricordandoci che, nonostante le sofferenze, questa città rimane un faro per chi l’ha lasciata, un luogo che forgia animi forti e resilienti. È un invito a non abbassare la guardia, a continuare a denunciare e a celebrare le nostre storie, perché Napoli, con tutti i suoi difetti, è e resta la nostra essenza.
