Cronaca
Le rivalità nel Clan D’Alessandro: come le dispute familiari minano la successione a Scanzano, un capitolo locale che non sorprende più. (85 caratteri)
#ClanDAlessandro: Unita fuori, ma interni bollenti a Scanzano – Le lotte familiari che svelano il volto nascosto della camorra stabiese
A Castellammare di Stabia, dove le strade conoscono ogni segreto e le famiglie regnano con un misto di potere e paranoia, l’ultima ordinanza cautelare sui vertici del clan D’Alessandro dipinge un quadro familiare che è tutto fuorché idilliaco. Come un cronista del posto, cresciuto tra queste viuzze, non posso fare a meno di notare come questa organizzazione, che appare monolitica agli occhi del mondo, sia in realtà un calderone di rivalità e strategie contrastanti. È una storia che rispecchia le dinamiche locali: qui, nel cuore di Scanzano, il controllo del territorio non è solo affari criminali, ma un dramma di sangue e ambizioni, dove i legami famigliari si intrecciano con l’illegalità in un equilibrio precario.
Tutto parte da un vuoto lasciato nel 2009, quando l’arresto di Vincenzo D’Alessandro, noto come ‘o topo, ha spalancato le porte a nuove gerarchie. Questo buco al vertice, in un quartiere come Scanzano che vive di potere consolidato, è stato riempito in fretta dal cugino Michele D’Alessandro, classe 1978, figlio di Luigi detto Gigginiello, che era uscito dal carcere nel 2018 dopo decenni di reclusione. Gli inquirenti, con la loro meticolosa ricostruzione, confermano che il clan D’Alessandro è un’istituzione giudiziaria ben radicata: un’entità camorristica che domina le attività illecite del territorio stabiese, dal traffico alle estorsioni, con una presa quasi totale.
Ma come un abitante del posto sa bene, Scanzano non è un blocco unico; è diviso in zone che riflettono divisioni più profonde, come due fazioni in una grande famiglia allargata. Da un lato, c’è l’area di Partoria, sotto il comando di Michele D’Alessandro del ’78, un pilastro operativo. Dall’altro, le Palazzine di via Pergole, roccaforte dei più giovani, dove emergono figure come Michele D’Alessandro (classe 1992, figlio di Luigi del ’73), Michele D’Alessandro (classe 1995, figlio di Vincenzo del ’76), e i fratelli Michele e Luigi D’Alessandro (rispettivamente del ’95 e ’98, figli di Pasquale del ’70). Non si tratta di una guerra aperta, ma di una competizione sotterranea per il prestigio e il controllo, in cui tutti collaborano per dividere i guadagni illeciti, mantenendo un’apparenza di unità. È una dinamica tipica di queste parti: qui, le alleanze si basano su equilibri fragili, e la coesione esterna serve solo a mascherare tensioni che potrebbero esplodere in qualsiasi momento.
Al cuore di tutto, ci sono due linee familiari che definiscono il clan: una discendente dal fondatore Michele D’Alessandro (classe 1945, deceduto), e l’altra dal fratello Luigi (classe 1947). La seconda, più attiva e dominante, ha visto Michele del ’78 al timone fino al suo arresto nel 2013. La prima, più giovane e meno radicata, ruota attorno a figure come Michele del ’92, influenzato dalla madre e dalla nonna Teresa Martone – un vertice femminile che, come spesso accade in queste storie locali, guida le decisioni da dietro le quinte. Da cronista del territorio, mi chiedo come queste donne, spesso ignorate, tengano insieme pezzi di un puzzle che rischia di sfaldarsi.
Gli inquirenti sono chiari: non c’è una vera frattura, ma una “diversa visione” su come gestire il territorio e gli affari. “Non in lotta”: l’equilibrio dei proventi – eppure, questa frase nasconde una realtà più complessa, dove i proventi illeciti vengono divisi proporzionalmente, e tutti contribuiscono al sostentamento delle famiglie dei detenuti. È un meccanismo di sopravvivenza che evita lo scontro, ma che, secondo me, rivela quanto questa organizzazione sia legata a doppio filo con la vita quotidiana di Scanzano: qui, il clan non è solo criminalità, è un tessuto sociale distorto.
In questo scenario, spiccano due figure chiave: Antonio Rossetti, detto ‘o guappone, delfino di Michele del ’78 e del fratello Pasquale, classe 1971, detto ‘o niro; e Nino Spagnuolo, detto capastorta, legato all’altro ramo. Rossetti è il tuttofare, che espande gli interessi del clan in settori leciti e illeciti, reinvestendo i guadagni sporchi. Spagnuolo, invece, è il contraltare, legato da vincoli di comparaggio a Vincenzo del ’76. La loro rivalità personale – con Spagnuolo convinto che Rossetti sia dietro un attentato del 2015 – non è solo vendetta, ma il sintomo di una gelosia per le “spiccate qualità criminali” e per ingerenze personali che minano l’organizzazione. Come un locale, vedo in questo la tipica lotta per il potere: uno vuole centralizzare, l’altro allargare il suo spazio, in un balletto che non rompe il clan, ma lo indebolisce dall’interno.
Il momento chiave arriva nel 2013, a Spoleto, dove Michele del ’78 si nasconde in un “covo” intercettato dagli inquirenti. Le conversazioni captate lì, tra lui e Rossetti, sono una miniera d’oro: confermano le gerarchie e i flussi di denaro. “Tu al posto mio”: la reggenza affidata a Rossetti – in queste parole, si vede un passaggio di testimone complicato, con Rossetti che deve affermarsi senza legami di sangue, navigando tra i giovani eredi. E poi, nelle intercettazioni del 2014, emerge la tensione sui soldi: “D’ALESSANDRO Michele ’92: “si ma perchè ad esempio dobbiamo dividere quando poi il loro ce l’hanno?… Gli hai ordinato sopra il loro?… Se si deve parlare io glielo dico… Dico io me la sono vista io… io sopra il vostro non mangio, se no mi devono dare i soldi al mese!…”; I. R.: “e quelli Antonio te la dà la cinquecento euro che ti porta al mese!”; D’ALESSANDRO Michele ’92: “che mi sta dando Antonio!!!… Che fossero le macchinette?”; I. R.: “quelli là… a quando li abbiamo avuti…”; D’ALESSANDRO Michele ’92: “l’ambulanza?… e che c’entra e gli altri possono mangiare sopra..!!”
Questo dialogo, crudo e rivelatore, mostra come i guadagni dalle estorsioni, dalle ambulanze e dalle slot machine siano usati per mantenere l’equilibrio. Da un osservatore del territorio, è chiaro che non si tratta solo di denaro: è un modo per placare ambizioni, preservando una pace interna che, alla fine, serve solo a perpetuare il controllo camorristico. In un posto come Castellammare, dove la camorra è parte del paesaggio, storie come questa ci ricordano che dietro la facciata unita, ci sono crepe che potrebbero un giorno far crollare tutto.
