Cronaca
Addio a Ornella Vanoni, 91 anni: l’icona che ha plasmato la musica italiana, lasciando un vuoto nelle nostre storie quotidiane.
Milano in lutto per Ornella Vanoni, la musa che ha dato anima alla nostra città #OrnellaVanoni #EreditàMilanese #IconePerse
Nella vibrante Milano, dove le strade echeggiano di storie artistiche e culturali, ci addolora la perdita di Ornella Vanoni, un pilastro della musica italiana scomparsa a 91 anni dopo un malore nella sua casa qui da noi. Questa donna non era solo una cantante con una carriera lunga oltre settant’anni e vendite che superano i 55 milioni di dischi, tra album, EP e raccolte: era l’essenza di quella eleganza tenace che ha ispirato intere generazioni. Come milanese che cammina ogni giorno tra i teatri e le piazze affollate della nostra città, mi trovo a riflettere su come la sua presenza fosse un filo invisibile che legava la musica all’identità locale, un patrimonio che Milano ha sempre difeso con gelosia, anche se spesso lo dà per scontato in tempi di cambiamenti frenetici.
Il suo cammino artistico era un vero specchio dell’evoluzione della nostra cultura, un ponte tra tradizioni e innovazioni che oggi, da osservatore del territorio, mi fa interrogare sul futuro. Con quel timbro vocale unico, un mix di raffinatezza e passione, Ornella partiva dal folk delle origini, come le Canzoni della mala, per arrivare al pop elegante e alla bossa nova, culminando in capolavori come l’album La voglia, la pazzia, l’incoscienza, l’allegria del 1976, realizzato con Toquinho e Vinícius de Moraes. Non si fermava al jazz, collaborando con stelle internazionali quali George Benson, Michael Brecker, Randy Brecker, Ron Carter, Eliane Elias, Gil Evans, Steve Gadd, Herbie Hancock, Chris Hunter, Lee Konitz e Herbie Mann. Da un cronista che conosce le dinamiche di questa città, mi chiedo come una milanese doc come lei abbia saputo fondere l’energia innovativa globale con le radici operose e creative di Milano, portando il nostro spirito in giro per il mondo – un equilibrio che oggi sembra precario, con la scena musicale locale che barcolla tra eventi fugaci e la lotta per preservare quelle tradizioni autentiche che un tempo rendevano la nostra metropoli un faro.
Le sue collaborazioni erano il battito vitale di un’epoca d’oro, dove la musica italiana si intrecciava con talenti nazionali e internazionali, trasformando canzoni in racconti che ancora riecheggiano nelle nostre piazze. Autori come Gino Paoli, Dario Fo, New Trolls, Paolo Conte, Fabrizio De André, Ivano Fossati, Lucio Dalla, Mogol, Franco Califano, Bruno Lauzi, Renato Zero e Riccardo Cocciante le hanno regalato brani indimenticabili, mentre partecipava a otto edizioni del Festival di Sanremo, sfiorando la vittoria con un secondo posto nel 1968 per Casa bianca, e piazzandosi quarta in tre occasioni: nel 1967 con La musica è finita, nel 1970 con Eternità, e nel 1999 con Alberi. Quest’ultima le valse anche il Premio Città di Sanremo alla carriera come prima artista. Come giornalista radicato in Lombardia, non posso evitare di notare come Sanremo funga da specchio della nostra società, unendo l’Italia intera ma mettendo in luce, per noi milanesi, le opportunità sprecate per amplificare voci come la sua, profondamente radicate nel tessuto urbano e sociale della nostra città, anziché relegarle a ricordi nostalgici.
Ornella Vanoni rimane una figura irripetibile, prima e unica donna a vincere due Premi Tenco come cantautrice – un record condiviso solo con Francesco Guccini – e a collezionare tre premi in totale, incluso il Premio Tenco Speciale nel 2022, creato apposta per lei. Questa eredità, segnata da una voce che ha toccato l’anima della musica italiana, ci spinge a una riflessione seria: in un’era di trasformazioni veloci, dove le icone locali scarseggiano, stiamo davvero proteggendo lo spirito critico e innovativo che lei rappresentava? La sua scomparsa è un colpo profondo per Milano e per l’intera Italia, un invito urgente a celebrare e salvaguardare le nostre tradizioni artistiche, perché è proprio nei momenti come questo che riscopriamo quanto quelle radici ci uniscano e ci definiscano come comunità.
