Cronaca
A Napoli, il clan Amato-Pagano e i milioni nascosti a Dubai: una banca segreta che rivela il volto oscuro della nostra città.
#Camorra a Napoli: I milioni di Dubai e i segreti del clan Amato-Pagano che alimentano il sottobosco criminale della città
Ah, Napoli, terra di contraddizioni dove il sole splende su piazze affollate e vicoli bui nascondono storie di potere e inganno. Come cronista locale, cresciuto tra queste strade, non posso fare a meno di riflettere su come il racconto di Raffaele Imperiale non sia solo una cronaca di crimini, ma un specchio della nostra realtà: un tessuto sociale logorato da decenni di traffici illeciti che intrecciano l’Europa con gli Emirati, lasciando ferite profonde nella comunità. Imperiale, un tempo il re dei giri sporchi, ha aperto uno squarcio su vent’anni di operazioni di cocaina, svelando la spina dorsale economica del clan Amato-Pagano – una macchina di soldi e influenze che ha prosperato sotto il nostro naso, finanziando un’economia parallela che tocca famiglie e quartieri.
Nel suo interrogatorio del 7 ottobre 2022, Imperiale ha dipinto un quadro vivido di come i legami con il clan si fossero rinvigoriti sotto la reggenza di Marco Liguori, per poi passare ad Antonio Pompilio, noto come ‘o Cafone, un vecchio alleato fidato. Qui, da queste parti, sappiamo bene che figure come Pompilio non sono solo esecutori: sono radici profonde nel terreno della malavita, uomini che garantiscono continuità in un mondo dove gli arresti sono solo pause temporanee. Pompilio, secondo Imperiale, ha gestito la distribuzione di 250 chili di cocaina destinati al mercato napoletano e campano, un colpo milionario che ha cementato alleanze tra il boss di Dubai e la base del clan a Melito. Non si tratta solo di droga, però; è un sistema che includeva il riciclaggio dei profitti, la divisione dei guadagni e una rete di società fasulle, un vero e proprio business che ironicamente funziona meglio di molte aziende legali nella nostra regione, dove il lavoro onesto lotta per emergere.
E qui emerge il lato finanziario, un aspetto che, come napoletano, mi fa scuotere la testa: Imperiale non era solo un fornitore, ma il contabile ombra del clan. Ha descritto una contabilità meticolosa, con soldi nascosti in cash, criptovalute e prestanome negli Emirati, un meccanismo che permetteva di lavare milioni senza lasciare tracce. “Doveva dare ad Amato Raffaele dieci milioni di euro. A Pompilio ntra i tre e i quattro milioni in casa, avevo ancora diciotto milioni di euro”, ha confessato Imperiale nel verbale, offrendo un’occhiata cruda a come questi flussi alimentino non solo il crimine, ma anche il silenzio complice di chi vive ai margini. È un riflesso amaro della nostra società, dove tali somme potrebbero finanziare scuole o ospedali, invece di perpetuare cicli di dipendenza e violenza.
Ma non finisce qui: Imperiale ha parlato anche dei contatti criptati con Pompilio, usando una piattaforma sicura di una compagnia svizzera, destinata solo agli affari loschi. Eppure, ‘o Cafone era sempre un passo avanti, confidandogli di aver adottato un nuovo software “dei calabresi”, più impenetrabile, installato poco prima del suo arresto. Come locale, so che questo non è solo un dettaglio tecnico; è un segno di come le alleanze tra clan napoletani e calabresi creino una rete più vasta, erodendo prezzi e fedeltà, e mettendo in luce la competizione feroce nel nostro Sud. I calabresi erano fornitori diretti di cocaina, e Pompilio stava negoziando per costi più bassi. Imperiale, però, aveva dato il via libera: “Gli dissi di acquistare pure da loto, usando i soldi che mi doveva. Poi mi avrebbe consegnato il margine di guadagno”. Un gesto che, nella mente di questi boss, è più controllo che generosità, un modo per mantenere il grip sui flussi di denaro in un gioco dove la fiducia è merce rara.
Nei passaggi successivi, Imperiale ha rivelato come, dopo l’arresto di Amato Raffaele, il potere nel clan fosse passato a reggenti e parenti, culminando con un giovane erede: il genero di Amato, fidanzato con la figlia Maria. Descritto come “arrogante e inesperto”, questo “ragazzino” pretendeva pagamenti extra, un dettaglio che Pompilio spiegò come un’imposizione familiare. È una dinamica tipica del nostro territorio, dove i legami di sangue sovrastano il merito, perpetuando un’eredità criminale che non evolve, ma si ripete, rafforzando il controllo del clan su Melito e oltre. Infine, Imperiale ha confessato di aver lasciato 18 milioni di euro a Dubai in mano a collaboratori come Carbone Bruno e Corrado Genovesi, che poi si sono rivolti a Pompilio per ripristinare i contatti post-arresti. Un impero nel deserto che, da qui, a Napoli, appare come un’estensione tentacolare della nostra ombra, un monito su come il crimine non si fermi ai confini, ma si adatti, evolvendo in un labirinto che sfida le nostre istituzioni.
In fondo, storie come questa non sono solo cronache di indagini: sono un invito alla riflessione per noi che viviamo qui, tra bellezze e brutture, a interrrompere questo ciclo prima che inghiotta un’altra generazione.
