Seguici sui Social

Cronaca

A Castellammare, il boss D’Alessandro cede due affiliati ai rivali per scongiurare un’altra faida camorrista.

Pubblicato

il

A Castellammare, il boss D’Alessandro cede due affiliati ai rivali per scongiurare un’altra faida camorrista.

Castellammare di Stabia: Quando la “diplomazia criminale” costa caro ai suoi stessi uomini #CamorraStabia #PaceNelSangue #TerritorioSottoAssedio

Castellammare di Stabia, una città che conosco fin troppo bene per le sue bellezze e le sue ombre, si trova ancora una volta al centro di una trama che mescola violenza e calcoli strategici nel mondo sotterraneo della camorra. Qui, dove il Vesuvio domina l’orizzonte e le storie di famiglie come i D’Alessandro si intrecciano con il tessuto quotidiano, Pasquale D’Alessandro ha optato per una mossa che, nella logica distorta di questi clan, dovrebbe rappresentare una forma di pace. Invece, non fa che ribadire quanto il nostro territorio sia prigioniero di un codice arcaico, dove il sangue versato è l’unico linguaggio negoziato.

Come cronista locale, cresciuto tra queste strade, non posso ignorare come questa “soluzione” rifletta il profondo cinismo che affligge Castellammare. D’Alessandro, erede di una dinastia criminale radicata da decenni, ha deciso di “dare in pasto” due dei suoi affiliati al clan rivale Di Somma-Lucarelli per scongiurare un’esplosione di violenza che avrebbe potuto travolgere l’intero quartiere. Non si tratta di un atto di debolezza, ma di una mossa calcolata, un tentativo di ripristinare un equilibrio precario in un contesto dove la faida storica pesa come un’eredità non rivendicata. I Di Somma-Lucarelli, svincolati dall’influenza dei D’Alessandro fin dagli anni Duemila, rappresentano una forza radicata nel Centro Antico, un’area che ho visto trasformarsi in un campo di battaglia durante quella vecchia guerra, costata vite come quelle di Giuseppe Verdoliva e Antonio Martone. Quei morti, scolpiti nella memoria collettiva, non sono solo nomi: sono ferite aperte per una comunità che, come me, sa quanto le alleanze – persino quelle con clan esterni come i cutoliani – abbiano fallito nel cambiare il corso di questi conflitti.

Quel che ha riattivato la miccia è stato un episodio del maggio 2024, un raid sconsiderato che ha portato due giovani legati ai D’Alessandro a sparare contro l’auto di Raffaele Lucarelli, mentre viaggiava con la compagna incinta. Un gesto che, anche secondo le regole spietate della camorra, è da considerare un sacrilegio, un affronto che non poteva rimanere impunito. Da qui, ho osservato come la tensione sia risalita rapidamente, con minacce che riecheggiano nei vicoli che percorro ogni giorno. D’Alessandro, consapevole della ferocia e del potenziale distruttivo dei rivali, ha preferito agire preventivamente, negoziando un patto che dimostra quanto il nostro territorio sia intrappolato in un ciclo perpetuo di vendette.

L’accordo, siglato con il cugino di D’Alessandro e Paolo Carolei, ha coinvolto Giacomo Di Somma e Raffaele Lucarelli: consegnare Gaetano Cavallaro e Catello Manuel Spagnuolo per una “punizione esemplare”. Un rito barbaro, mascherato da risoluzione pacifica, dove la violenza è dosata con precisione chirurgica per evitare un’escalation. A gestire l’operazione sono stati Massimo Mirano, noto come ‘o maccarone, e Giovanni D’Alessandro, con il compito di accompagnare i due all’incontro e garantire che tutto seguisse il copione: ferite gravi, ma non letali, per inviare un messaggio chiaro senza scatenare una vera guerra.

Le ricostruzioni degli inquirenti rivelano un pestaggio brutale, poi camuffato come incidente stradale. Quando Cavallaro e Spagnuolo sono arrivati all’ospedale San Leonardo, le loro storie non hanno ingannato nessuno. Dal referto medico emergono dettagli che mi lasciano sgomento, come la descrizione delle lesioni: “avulsione completa della II e III falange del dito indice sinistro, con perdita di sostanza ossea, frattura basale del quarto dito della mano sinistra e frattura scomposta delle ossa nasali” per Cavallaro, e “trauma cranico commotivo, frattura delle ossa nasali, ferite lacero-contuse al volto” per Spagnuolo. Ferite “su misura”, come le definiscono le indagini, calibrate per punire senza uccidere, un compromesso che, nel mondo criminale, passa per saggezza ma che, per chi vive qui, è solo un’altra cicatrice su un territorio già martoriato.

Questo episodio, emerso dalle carte di un’inchiesta che ha rimandato in carcere D’Alessandro e altri nove affiliati, è un raro scorcio di quella che potremmo chiamare “diplomazia criminale”. Nella camorra, la violenza non è solo distruzione, ma anche strumento di controllo, dove sacrificare “pedine” come Cavallaro e Spagnuolo serve a preservare l’assetto del clan. Eppure, come giornalista immerso in queste dinamiche, non posso fare a meno di riflettere su come questo “patto del pestaggio” lasci due giovani sfigurati e un’intera comunità nel suo solito incubo. Castellammare merita di più di queste logiche perverse: alleanze forgiate nel sangue che non risolvono nulla, ma perpetuano un ciclo di paura e silenzio, rinforzando le catene che ci legano a un passato che non vuole morire.

Continua a leggere

Questo sito web non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità.
Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001.
Alcuni contenuti sono generati attraverso una combinazione di una tecnologia proprietaria di IA e la creatività di autori indipendenti.
Per contatti [email protected]