Cronaca
De Laurentiis avverte: i potenti stanno rovinando il calcio con nazionali, TV e calendari, e urge una vera rivoluzione per proteggerlo
Il calcio italiano come un “feudo medievale”: De Laurentiis chiama alla rivoluzione per club e tifosi #CalcioItaliano #RiformaCalcio
Immaginate di sintonizzarvi su un’emittente radiofonica, dove la voce di Aurelio De Laurentiis risuona come un eco dalla stanza di un dirigente stanco ma appassionato, riempiendo l’aria con parole di frustrazione e visione. Seduto ai microfoni di Radio Crc, il presidente del Napoli non si limita a un semplice sfogo: dipinge un quadro vivido del calcio italiano, un mondo che definisce “medievale”, dominato da “grandi signorotti” e meccanismi di potere più interessati a conservare seggi che a innovare. È una scena familiare per chi vive nelle città come Napoli, dove il calcio è il battito del quartiere, un rituale che unisce famiglie e strade, ma che ora rischia di spegnersi sotto il peso di decisioni opache.
De Laurentiis racconta come, nel suo mondo, “tutti vogliono aggiungere e nessuno vuole levare”, accumulando competizioni e impegni fino a sovraccaricare i club e i loro tifosi. Pensate ai campi da gioco affollati di partite, dove i giocatori – il cuore pulsante di questa passione collettiva – pagano il prezzo con infortuni crescenti. È un tema che riecheggia nelle conversazioni al bar o nei parchi urbani, dove i supporter discutono di come questo caos influenzi la comunità, erodendo quel senso di appartenenza che rende il calcio un rifugio dai problemi quotidiani. Lui propone un rovesciamento: “Decida il club”, insistendo che le società debbano avere l’ultima parola sui loro atleti, specialmente quando si tratta di Nazionali e rischi fisici, per proteggere non solo gli investimenti, ma anche le emozioni di chi vive per quelle domeniche.
Per rendere l’idea, De Laurentiis ricorre a una metafora domestica che tutti possiamo immaginare: “non si deve distrugere un gioco giocando troppo”, come quando “fai una cena e sbagli il menù, metti troppe cose” e rovini l’intero evento. Gli “incubi” di cui parla – stop muscolari, ricadute – non sono solo statistiche; sono storie di atleti esausti e di fan delusi, che vedono il loro eroe preferito uscire anzitempo da un match, lasciando un vuoto nelle tribune e nei salotti di casa. Questa riflessione porta a una visione più ampia: i calciatori come “liberi professionisti”, visto che “ormai sono delle aziende”, e l’urgenza di regolamentare gli agenti per riequilibrare il sistema. È un invito a considerare il calcio non solo come sport, ma come tessuto sociale, dove ogni infortunio echeggia nelle famiglie che fanno sacrifici per seguire la squadra.
Al centro di tutto, per De Laurentiis, c’è il tifoso – quel vicino di casa che trova nel campionato “un vero valore”, una “panacea di tutti i mali”. Eppure, avverte, “le istituzioni non lo proteggono”, sacrificando la qualità dell’esperienza a favore di interessi di potere. Immaginate le piazze di Napoli o Roma, colme di entusiasmo prima di una partita, ma segnate da un calendario opprimente che lascia tutti stanchi. È un’osservazione editoriale naturale: in un contesto urbano come quello italiano, dove il calcio alimenta la coesione sociale, ignorare questi rischi significa perdere un’opportunità per rafforzare le comunità, non solo i bilanci.
Il discorso si allarga alla politica e alla governance, con De Laurentiis che critica un sistema che “mette ostacoli affinché il calcio italiano possa essere forte e sorridente e vincente in tutta Europa”. Rivendica la necessità di abolire vincoli come la Legge Melandri per garantire “libertà assoluta di impresa”, e punta il dito contro la Lega Serie A, confessando: “Da 21 anni mi sono stancato di andare a parlare del nulla”. Sostiene che “Decidano i proprietari”, in un approccio più aziendalista che potrebbe riportare decisioni rapide e coraggiose, riflettendo come queste dinamiche influenzino l’economia locale e il benessere dei club come pilastri della città.
Tocchiamo poi il nervo economico con un avvertimento: “Occhio a DAZN”, dove “nello stadio reale i biglietti li vendiamo noi e in quello virtuale li vendono gli altri”. La Lega, a suo dire, “fa finta di nulla”, permettendo che i diritti TV drenino valore senza ridistribuirlo equamente. È un richiamo a pensare al “stadio virtuale” non come un’astrazione, ma come un’estensione delle strade affollate di tifosi, dove ogni visualizzazione dovrebbe rafforzare il territorio, non impoverirlo.
Nell’intreccio personale, De Laurentiis evoca i successi del Napoli nel 2025, descrivendoli come trofei “diversi” da quelli del passato, e ricorda Maradona come un simbolo irraggiungibile: “non si riesce mai ad eguagliare”, un’eredità che va oltre il campo, mescolando sport e cultura partenopea. Condivide aneddoti come “abbiamo anche lavorato a un film”, e storie di gioventù, collegandole a iniziative che fondono calcio e beneficenza, mostrando come il club possa essere un ponte per la comunità. È un tocco umano che sottolinea: il calcio non è solo business, è parte dell’identità urbana, un modo per “far divertire le persone” come nei suoi giorni da produttore cinematografico.
Infine, guardando ai modelli esteri, paragona l’NBA, che “hanno mandato a quel paese tutti” per poi ripartire “alla grande”, all’illusione della Premier League, dove “il calcio inglese non è poi così gaudente”. Conclude che “nel nostro sistema qualcosa non funziona”, lasciando spazio a una riflessione: in un’Italia dove il calcio è il collante di tante vite quotidiane, riforme come quelle proposte da De Laurentiis potrebbero non solo rivitalizzare il gioco, ma anche rafforzare il legame tra le persone e il loro territorio, ricordandoci che ogni cambiamento inizia da una conversazione come questa.