Cronaca
A Chiaia, un calciatore ferito in una spedizione punitiva rivela il mistero di una telefonata tra i suoi genitori
Un giovane calciatore sfida il destino nei vicoli accesi di Napoli, dove la violenza giovanile lascia ferite profonde #Napoli #SicurezzaUrbana
Immaginate la frenetica energia della movida a Chiaia, dove le risate si mescolano al rombo dei scooter e le luci dei locali sfidano l’oscurità della notte. È qui, tra i sampietrini lucidi di pioggia, che Bruno Petrone, un promettente 18enne del mondo del calcio, si è trovato improvvisamente al centro di un incubo che ha interrotto solo per un colpo di fortuna e la sua indomita forza fisica.
Il 27 dicembre, intorno all’una, quella che sembrava una serata qualunque si è trasformata in un’aggressione calcolata, catturata dalle fredde lenti di cinque telecamere di sorveglianza. Bruno ha cercato di scappare, intuendo che non si trattava di una semplice discussione, ma di una “sentenza” pronunciata da un branco armato. A guidare l’attacco, un 15enne di San Carlo all’Arena, con in mano un coltello e una chiave inglese, mentre i suoi complici – due ragazzi di 16 e 17 anni – lo immobilizzavano senza pietà.
Le ricostruzioni degli inquirenti, coordinate dal sostituto procuratore Claudia De Luca, dipingono una scena cruda: colpi pesanti con la chiave inglese, seguiti da due coltellate profonde all’addome e al torace, in un “massacro di botte” che ha lasciato Bruno a lottare per la vita. Un quarto aggressore fungeva da barriera, aggredendo un amico di Bruno che aveva osato intervenire, in un vortice di violenza che rispecchia le tensioni accumulate nelle pieghe della città.
Al cuore di questa storia c’è un movente apparentemente banale, un “sguardo di troppo” una settimana prima, che nel codice distorto delle strade napoletane si trasforma in un debito da saldare con il sangue. Eppure, c’è un’ironia tragica: Bruno e il suo assalitore non si conoscevano personalmente, ma i loro mondi si erano già sfiorati. Il fratello maggiore del 15enne aveva condiviso il campo da calcio con Bruno, legando due famiglie in un dramma che ricorda le trame di una tragedia moderna. Le indagini rivelano che i padri avevano tentato una “pacificazione” al telefono, un gesto di mediazione che, ahimè, non ha placato le fiamme della vendetta covate dai ragazzi, armati e determinati.
Ora, mentre Bruno si riprende lentamente all’ospedale San Paolo, supportato dalle cure mediche e dalla visita solidale del Prefetto Michele di Bari, i quattro aggressori si sono consegnati alle autorità, forse sentendo il fiato delle indagini serrate. Il 15enne, assistito dal suo avvocato, ha espresso di essere “dispiaciuto”, ma gli inquirenti dubitano, sospettando una coordinazione per minimizzare le responsabilità. La difesa parla di una possibile provocazione, affermando che Bruno avrebbe mostrato una pistola durante il primo scontro: “Si è alzato il maglione e l’abbiamo vista”. Per la Procura, però, è solo una tattica, dato che dell’arma non c’è traccia, mentre le cicatrici sul corpo di Bruno sono fin troppo reali.
Questa mattina, l’udienza di convalida dei fermi presso il centro di Colli Aminei affronta accuse gravi: tentato omicidio aggravato da premeditazione e motivi futili, con l’accusa di porto abusivo d’arma per il più giovane. La comunità di Napoli osserva in silenzio, riflettendo su come episodi come questo rivelino le fragilità di un territorio dove la gioventù, tra sogni sportivi e vicoli ombrosi, rischia di perdersi in cicli di violenza evitabili.
Il Prefetto Michele di Bari, durante la sua visita all’ospedale, ha incontrato i genitori di Bruno, condividendo il loro dolore e lodando i medici: «È stata un’azione violenta e deprecabile che non deve più accadere», ha detto, auspicando un rapido ritorno del giovane sul campo con l’Angri. È un promemoria che, in una città vibrante come Napoli, ogni atto di aggressione non ferisce solo le vittime, ma intacca il tessuto sociale che ci unisce tutti.