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Cronaca

Nel nostro Sud, i pentiti denunciano: Camorra e il potere occulto nelle celle, tra telefoni e ordini che resistono.

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Nel nostro Sud, i pentiti denunciano: Camorra e il potere occulto nelle celle, tra telefoni e ordini che resistono.

#Secondigliano: Il Carcere che Non Chiude il Clan, Ma lo Dirige Davvero? #CrimineNapoli #GiustiziaFallimentaria

Nel cuore di Secondigliano, un quartiere che conosco fin troppo bene per le sue strade piene di contraddizioni, il carcere non è stato solo un luogo di punizione, ma un vero e proprio quartier generale per i clan come Amato-Pagano e Vanella Grassi. Vivendo qui, vedo ogni giorno come le promesse di giustizia si scontrino con una realtà che rende le sbarre più porose di un setaccio. È una storia che non sorprende noi locali, abituati a scrutare oltre le facciate grigie, dove il potere criminale si adatta e persiste, trasformando la detenzione in un’opportunità per orchestrare il caos esterno.

Per anni, le ore di colloquio e i corridoi del reparto di alta sicurezza hanno funzionato come una centrale operativa invisibile, dove i boss continuavano a dettare ordini su uomini, armi e piazze di spaccio. È frustrante pensare che, in un’area come la nostra, segnata da decenni di lotta contro la camorra, le mura del carcere non spezzino i legami, ma li rafforzino, rivelando le crepe di un sistema che non riesce a isolare il male. Le indagini del 2023 hanno portato alla luce una rete sotterranea che permetteva a figure chiave come Elia Cancello, Luigi Diano – noto come “Cicciotto” – e Enzo Notturno di mantenere il controllo, persino da dietro le sbarre.

Questa rete si basava su strumenti semplici eppure efficaci: pizzini, telefoni clandestini e colloqui manipolati, che collegavano le celle alle vie di Scampia, San Pietro a Patierno e proprio Secondigliano. Come cronista del posto, non posso fare a meno di riflettere su come questo specchio le dinamiche sociali del quartiere, dove la famiglia e i legami informali diventano gli anelli deboli che i clan sfruttano per superare ogni barriera. Raffaele Paone, collaboratore di giustizia soprannominato “Rafaniello”, ha descritto come lui stesso usasse telefoni “di reparto” per comunicare all’esterno, sotto la guida di altri affiliati, un dettaglio che sottolinea l’infiltrazione profonda all’interno della struttura.

Gli investigatori hanno documentato contatti continui tra detenuti e affiliati liberi, con “Ogni giorno giravano messaggi da cella a cella – racconta Paone nei verbali del 19 novembre 2024 – e chi usciva in colloquio faceva da ponte. Bastava una parola, un nome scritto su un pacchetto di sigarette, e tutto il clan sapeva cosa fare”. Questa citazione, tratta da atti ufficiali, è un pugno nello stomaco per chi, come me, vede il quartiere vivere sotto l’ombra di questi meccanismi. Dopo la scarcerazione di Elia Cancello nel 2021, ad esempio, i flussi di pizzini – veicolati attraverso familiari e compagne – gli hanno permesso di restare connesso al clan, come evidenziato nei provvedimenti cautelari del 2024. È un ciclo che critica aspramente l’efficacia delle nostre istituzioni: un “sistema di corrispondenza occulta” basato su biglietti cifrati e intermediari, come descritto dai ROS, che trasforma visite innocenti in scambi di potere.

Nei colloqui intercettati, i dialoghi assumono un’aria criptica, dove un “saluto a Nando” significava rifornimenti di droga, e “il ragazzo dei palazzi” indicava un nuovo contatto per la piazza dei Sette Palazzi, dominio della famiglia Cifariello e alleata degli Amato-Pagano. Questo linguaggio codificato non è solo astuto, è un riflesso delle nostre strade, dove la normalità nasconde l’illegalità, e i clan reinventano le regole per mantenere l’equilibrio post-faida del 2016. I fascicoli del procedimento 17901/2023, che culminarono nell’arresto di Paone per estorsione, rivelano come quei telefoni non servissero solo per affari, ma per ridisegnare il potere in tempo reale, con i detenuti come antenne e i familiari come nodi cruciali.

I pizzini sequestrati nel 2024 raccontano storie simili: in uno attribuito a Cicciotto Diano, si legge la frase “Il fratello di Elia ha la chiave, ma non deve aprire fino a quando non torna il signore”, interpretata dagli inquirenti come un ordine per bloccare una piazza di spaccio nel Lotto G in attesa di approvazione dai vertici incarcerati. È ironico, se ci pensate, come un’istituzione pensata per spezzare il crimine finisca per esserne il pilastro. Ogni comando passava da lì, e se un affiliato esitava, una semplice “visita” al padiglione risolveva tutto. In una conversazione intercettata nel 2023 tra due donne – moglie e sorella di reclusi – si sente chiaramente “Ha detto Elia che il Lotto resta nostro, ma niente casino. Le mani ferme, fino a nuovo ordine”, una frase che echeggia la persistenza di un’autorità che nessuna sbarra sembra poter fermare.

Alla fine, questa vicenda non è solo un capitolo di cronaca, ma un monito per Secondigliano e i suoi dintorni: il carcere, invece di essere una soluzione, diventa un’eco delle nostre vulnerabilità sociali, dove i clan si adattano e sopravvivono. Come giornalisti locali, dobbiamo continuare a scavare, non solo per denunciare, ma per spingere verso un cambiamento reale che tagli questi fili invisibili.

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