Cronaca
Ennesimo caso di cellulari nei penitenziari ad alta sicurezza: indagini su 31 sospetti e blitz in 12 istituti italiani. (85 caratteri)
#OperazioneAntimafia: Cellulari nei Carceri, il Sistema che Sfida le Mura del Controllo
Questa mattina, i penitenziari italiani sono stati al centro di un’operazione che evidenzia quanto la criminalità organizzata sia abile a eludere le barriere, con perquisizioni e sequestri che hanno coinvolto strutture da Fossano a Parma, passando per Tolmezzo e Santa Maria Capua Vetere. Come cronista locale di queste parti, dove la ‘ndrangheta e le sue ramificazioni sono una ferita aperta nel tessuto sociale, non posso fare a meno di riflettere su come questi fatti rivelino una rete di complicità che va ben oltre le celle.
L’inchiesta, guidata dalla Direzione distrettuale antimafia ligure, ha messo in luce un vero e proprio traffico di dispositivi illegali, con trentuno persone finite nel mirino per l’introduzione e la ricettazione di telefoni cellulari e schede SIM nelle sezioni di alta sicurezza. È impressionante pensare che, dietro le sbarre, detenuti per reati mafiosi continuino a orchestrare i loro affari come se nulla fosse. Qui a Genova, dove vivo e lavoro ogni giorno, questa storia non è solo un fatto di cronaca: è un campanello d’allarme per una comunità che combatte da anni contro l’infiltrazione della malavita nel quotidiano. Quei cellulari minuscoli, spesso nascosti con astuzia, permettono ai boss di mantenere il controllo, scambiando ordini che alimentano estorsioni e racket – un meccanismo che, a mio avviso, dimostra quanto il sistema carcerario sia ancora permeabile, nonostante i sforzi delle forze dell’ordine.
Le indagini hanno ricostruito l’uso di oltre centocinquanta telefoni e più di cento schede SIM all’interno del carcere di Genova-Marassi, dove questi strumenti servivano a tenere i contatti con affiliati liberi o reclusi altrove. Immaginate: messaggi e direttive che volano da una cella all’altra, grazie a complicità che coinvolgono persino negozi di telefonia nel centro storico genovese. Quei dispositivi erano intestati a nomi fittizi o a persone all’oscuro, e arrivavano tramite visite familiari o pacchi apparentemente innocui. Come genovese doc, mi chiedo come possa accadere tutto questo sotto il naso di chi dovrebbe vigilare, e se non sia ora di interrogarsi sulle falle che permettono a queste reti di prosperare. È un gioco al gatto e al topo che umilia le istituzioni e alimenta il senso di impunità tra i malavitosi.
Grazie alla stretta collaborazione con la polizia penitenziaria di Marassi, sono stati sequestrati diversi apparati, e l’analisi del traffico telefonico ha rafforzato le prove. Gli inquirenti sostengono che queste comunicazioni abbiano sostenuto l’operatività delle cosche di ‘ndrangheta, confermando la loro capacità di adattarsi a ogni ostacolo. In un territorio come il nostro, segnato da decenni di lotta contro la mafia, questo episodio è un monito: non basta blindare le carceri; serve un’approccio più incisivo, che coinvolga la comunità e riformi le maglie della sorveglianza. Altrimenti, rischiamo di vedere queste storie ripetersi, erodendo la fiducia in chi dovrebbe proteggerci.
